"Tutta l'arte del secolo appena passato ha coltivato l'utopia di tornare alle radici, al disegno infantile; Paul Klee intimava agli artisti di andare a scuola dai bambini oppure alle cosiddette arti selvagge, che noi preferiamo qualificare come etniche, e ci si imbatte così nelle "signorine d'Avignone" di Pablo Picasso, con sul volto una maschera africana, forse quella scovata da Vlaminick nella osteria di un porto di mare. Nevio Bedeschi sembra aver portato questa utopia alle estreme conseguenze: è risalito fino alle origini dell'arte, a quel paleolitico superiore che ha visto un popolo di cacciatori, d'improvviso colpito da una folgore creativa, dipingere, cominciando da più di trentamila anni fa; si veda la grotta di Chauvet, la più antica di tutte, una costellazione polimorfa di animali, bisonti, cervi, cavalli, renne a formare il primo grande museo animalista dell'uomo. Una gran parte del lavoro di Nevio Bedeschi, perlomeno quella che, visti i miei interessi, mi ha coinvolto di più, è stata rivisitazione pittorica di quelle remote immagini totemiche, citate, trasformate e mescolate a simboli presi dal mondo contemporaneo, per esempio un segnale stradale, quasi a suggerire che l'arte non ha tempo, è l'eterno presente su cui ha scritto Gideon in un suo celebre libro. La preistoria è sempre presente, ma contaminata con figure geometriche, lettere, strutture poste sui confini dell'astrazione o dell'informale, spesso simili a frammenti di manifesti strappati, oppure a sogni di un medioevo fantastico e sommerso. Come nei graffiti e nei dipinti preistorici e del pari nei disegni infantili o anche in taluni di quei murales che di notte degli artisti sconosciuti dipingono sulle pareti delle case, ci troviamo di fronte, nelle opere di Nevio Bedeschi, e delle continue trasparenze: le immagini si sovrappongono, si combinano in caleidoscopi percettivi, naufragano in macchie e in coaguli. Però, il paesaggio in fondo, su tela o su carta poco importa, resta sempre il fantasma, se si può dire così, della scabra parete di una grotta e le mani oranti che citano Gargas, o i cervi, che sembrano galoppare a Lascaux, continuano a fare una prodigiosa allucinazione pittorica che, con Nevio Bedeschi, ci riporta alle origini"
Giorgio Celli
Giorgio Celli